Donne, sport e libertà: la storia di quattro professioniste discriminate dal mondo sportivo
Donne, sport e libertà: la storia di quattro professioniste discriminate dal mondo sportivo Donne, sport e libertà: la storia di quattro professioniste discriminate dal mondo sportivo
Lo sport è senza dubbio uno dei settori che dimostra quanto le donne, se pur campionesse talentuose, debbano ancora lavorare e sgomitare tanto per ritagliarsi i diritti e lo spazio meritato sulla carta. A proposito di diritti, esiste la fondazione Acli (Associazioni Cristiane dei Lavoratori Italiani) che tra le varie iniziative di inclusione sociale riguardanti i bambini con disabilità psicofisiche, gli anziani e gli immigrati, ha deciso di occuparsi di un altro tema scottante; la discriminazione delle donne in ambito sportivo.
"Donne, sport e libertà” è il nome dell’incontro avvenuto a Bologna qualche mese fa, presieduto dalla presidente della sede Acli del capoluogo emiliano Chiara Pazzaglia, la quale ha deciso di invitare quattro donne che con le loro vicende personali hanno posto la lente d’ingrandimento su temi di discriminazione verso il sesso debole.
La prima a prendere la parola è Rae Lin D’Alie, una cestista italoamericana che ha giocato, tra le altre squadre, anche a Bologna con la maglia della Virtus e della Progresso. La playmaker è nata in America nel 1987 da genitori italiani e nel 2011 decide di trasferirsi in Italia per giocare a Basket. Da allora è stabilmente nel bel paese e nella sua personalissima esperienza ha avuto modo di scontrarsi con il forte maschilismo degli anni passati tra la vita di quartiere americano e il campo:
“Vengo da famiglia di sei figli, ero sempre in mezzo ai maschi, la vita da quartiere mi ha insegnato a lottare sono stata obbligata a diventare una leader. Alla Virtus Bologna ho capito che ci sono le differenze tra la squadra maschile è quella femminile, come ad esempio nel salario. Alcune differenze sono giuste, perché magari gli uomini riempiono gli stadi. Ma a Bologna mi sentivo importante per la città, al pari degli uomini".
Rae è la classica atleta che a prima vista non verrebbe mai associata alla pallacanestro, infatti, i suoi 159 centimetri le hanno causato parecchi problemi a inizio carriera, ma la sua tenacia l’ha portata ad eccellere, arrivando anche a conquistare una medaglia d’oro con la nazionale azzurra ai mondiali di basket 3X3.
Prima di congedarsi, la trentacinquenne ci ha tenuto a ringraziare tutte quelle donne che come lei negli anni hanno lottato per permettere alle generazioni future di essere considerate sportive professioniste e ha dichiarato di essere orgogliosa dei risultati raggiunti.
La seconda storia è quella di Body-shaming subita da Martina Scavelli, arbitro di pallavolo di serie A e B che è stata costretta a dimettersi a causa del suo peso:
“Gli arbitri nazionali di serie A e serie B devono rientrare in dati antropometrici: la circonferenza addominale per le donne è di 88cm, per gli uomini è di 102. Io mi sono sempre denunciata quando uscivo da questi parametri ma è successo qualcosa di molto strano” dice la Scavelli, che poi racconta un aneddoto accaduto qualche mese prima quando si trovava a Napoli per dirigere una gara e improvvisamente ricevette una telefonata nella quale le annunciarono una visita medica a sorpresa volta a verificare se le sue condizioni fisiche da arbitro fossero idonee o meno. L'esito del controllo evidenziò qualche centimetro di troppo. La donna una volta tornata a casa, decise di dimettersi dal ruolo per mandare un segnale forte a chi di dovere e il suo post su Facebookrimane una testimonianza chiara della lotta alla discriminazione sia maschile che femminile:
“Sono stanca di essere misurata e pesata come si fa con le vacche. Lo sport dovrebbe unire, anziché emarginare. E io non voglio più essere messa all'angolo per qualche centimetro o qualche chilo in più”.
Alice Pignagnoli, purtroppo già nota per la sua vicenda, è la terza invitata a raccontarsi al pubblico e ha portato la sua esperienza da mamma nel mondo dello sport. La calciatrice è stata messa fuori rosa dalla Lucchese quando è rimasta incinta del secondo figlio e la questione ha scatenato parecchie polemiche, portando la donna a scrivere il libro “Volevo solo fare la Calciatrice”.
La Pignagnoli, con voce rotta dall’emozione, racconta quanto quel periodo, che ogni donna sogna di vivere sin da bambina, abbia rappresentato per lei un passaggio triste per colpa della società che l’ha immediatamente esclusa dagli allenamenti e dalla vita di spogliatoio: “Mi hanno chiesto di lasciare il posto letto, mi hanno tolta dal gruppo Whatsapp di squadra. Ero triste, e ho scelto di non tacere: da lì è partito il tutto. Tutt’oggi sono fuori rosa e sto vivendo la gravidanza in solitudine. Per me che gioco a calcio da quando avevo 7 anni è stato come un lutto, perché dal giorno dopo che scoprii la gravidanza devi smettere di giocare e allenarti. Il libro che ho scritto serve a dire alle bambine e alle ragazze che con la volontà e con l’amore si possono costruire grandi cose e soprattutto per dare loro un riferimento diverso rispetto a quanto ci sentiamo costantemente dire”.
La maternità è un evento meraviglioso che accade alla donna e deve rappresentare un valore aggiunto per lei e per chi la circonda e non l’inizio di una vita piena di limiti e privazioni. Spesso quando pensiamo ad una donna incinta la classifichiamo solo come Mamma, dimenticandoci che prima ancora esiste la persona con il suo passato, le passioni e i sogni che non vanno mai e poi mai dimenticati. Anche perché non esiste modo migliore di crescere un figlio con l’insegnamento concreto di non dimenticarsi mai di sé stessi e dei propri obiettivi.
Manuela Migliaccio chiude la conferenza con il suo racconto di ragazza disabile e veterinaria, raccontando come sia stata discriminata per la sua malattia e non per essere donna, infatti, la trentottenne è sulla sedia a rotelle da quando ha venticinque anni e dopo essersi laureata ha iniziato a dover lottare contro i pregiudizi che le hanno fatto capire quanto una veterinaria in carrozzina non fosse vista bene dal mondo medico. La donna ha lottato parecchio per far capire che le competenze e gli studi si possono avere anche se si è costretti a restare seduti e ha manifestato molta rabbia per via della confusione che, ancora oggi, esiste tra disabilità mentale e fisica. La sua condizione l’ha tenuta più di un anno senza lavoro ma ci ha tenuto a dire quanto lo sport l’abbia aiutata all’inclusione sociale e ha dimostrato che a volte una disabilità può essere lo stimolo a lavorare per il riscatto piuttosto che soccombere.
Queste quattro storie sono solo la punta di un iceberg formato da un insieme di donne che lottano quotidianamente per le loro vite da sportive e cittadine in un mondo complicato. Quattro dimostrazioni concrete per le generazioni future. Le bambine sportive hanno degli esempi e delle strade tracciate da seguire, e nonostante ci sia ancora qualcuno pronto ad intralciare questi percorsi, i risultati sono enormi e sotto gli occhi di tutti.