Sport italiano: più donne in campo, pochissime al comando

Sport italiano: più donne in campo, pochissime al comando

Una Manager (immagine generata AI)

 

 

Negli ultimi anni lo sport femminile in Italia è cresciuto tantissimo: più tesserate, più risultati, più attenzione mediatica.

 

Insomma, le donne in campo ci sono, e si fanno sentire, ma basta spostare lo sguardo dietro le quinte per scoprire un’altra realtà, molto meno positiva: solo il 7% dei dirigenti sportivi è donna e tra gli allenatori la presenza femminile non supera il 3%.

I numeri parlano da soli e raccontano un divario che non può più essere ignorato. È un paradosso evidente: lo sport chiede alle donne di partecipare, di impegnarsi, di fare risultati… ma quando si tratta di decidere come lo sport deve funzionare, le loro voci quasi spariscono.

Allora la domanda diventa inevitabile: perché, nonostante i progressi, le donne non arrivano ai ruoli decisionali?

 

Partiamo dal punto più scomodo: la cultura sportiva italiana è ancora molto maschile. Lo sport, soprattutto quello agonistico e professionistico, è stato per decenni raccontato come una “cosa da uomini” e questo ha plasmato comportamenti e rapporti di potere. Molte donne che lavorano nello sport riportano lo stesso tipo di esperienza: riunioni in cui vengono scambiate per assistenti, decisioni prese senza coinvolgerle anche quando la responsabilità è loro, panchine dove l’autorevolezza viene messa in discussione al primo errore. Non è cattiva volontà, spesso è abitudine: una normalità sbagliata, ma radicata. Quando un settore è dominato per tanto tempo da un solo genere, cambiare percezioni e automatismi diventa un lavoro lento, che richiede tempo, energia e soprattutto volontà da parte delle istituzioni.

 

Un altro ostacolo più concreto e altrettanto decisivo é  l'aspetto economico. Diventare dirigente, allenatrice, formatrice o responsabile tecnico richiede percorsi lunghi, certificazioni costose, ore di aggiornamento, viaggi e disponibilità continua. Per una donna, che in Italia spesso si occupa ancora della parte maggiore del lavoro familiare, il tempo “libero” diventa una risorsa preziosa e lo sport, purtroppo, non è sempre pronto ad offrire percorsi flessibili. Non è un caso che molti ruoli tecnici siano occupati da uomini che possono permettersi,  per struttura familiare, reddito o opportunità, di investire più tempo.

A complicare il quadro c’è anche la scarsa retribuzione di molte posizioni sportive, soprattutto a livello dilettantistico e giovanile. Se la scelta è tra un lavoro stabile e un incarico tecnico sottopagato, la seconda opzione diventa poco sostenibile.

 

Poi c’è un fattore di cui si parla poco, ma che pesa tantissimo: la struttura interna delle federazioni e delle società sportive. Molti organigrammi cambiano pochissimo nel tempo. Ci sono reti consolidate, rapporti storici, sistemi di cooptazione che favoriscono chi è già dentro. Se in un consiglio federale siedono quasi solo uomini da vent’anni, è difficile che all’improvviso venga proposta una donna per un ruolo di responsabilità. Non per cattiveria, ma perché i meccanismi non sono costruiti per aprirsi. Così si crea un circolo vizioso, poche donne entrano nei ruoli intermedi, poche possono crescere,  pochissime arrivano ai vertici. Un collo di bottiglia che limita la meritocrazia e, soprattutto, priva lo sport di competenze preziose.

 

Cosa si sta facendo in Italia al proposito? La buona notizia è che qualcosa negli ultimi anni ha iniziato a muoversi. Alcune federazioni stanno avviando percorsi che puntano proprio a riequilibrare la situazione.

 

1. Programmi di formazione specifici per dirigenti donne: workshop, master, mentoring, percorsi che servono a costruire competenze, ma soprattutto reti e consapevolezze. Perché sapere di non essere sole fa la differenza.

2. Introduzione (o proposte) di quote di rappresentanza: un tema delicato, ma spesso efficace per rompere le abitudini. Le quote non risolvono tutto, ma aprono porte che altrimenti resterebbero chiuse. 3. Più accessibilità ai corsi per allenatrici: alcune federazioni stanno ripensando costi, orari, modalità online dei corsi. Piccoli cambiamenti, ma capaci di avere un grande impatto.

4. Campagne di sensibilizzazione: lavorare sugli stereotipi è fondamentale. Parlare di leadership femminile, raccontare storie di successo, smontare pregiudizi: tutto questo contribuisce a creare un clima più favorevole.

5. Rappresentanza nelle commissioni tecniche e giovanili: un modo per far crescere competenze femminili in contesti decisionali reali, non solo formativi. Perché è importante avere più donne al comando.

 

A volte si pensa che la parità nei ruoli decisionali sia solo una questione “di giustizia”. Lo è, certo, ma non basta. Lo sport migliora quando chi lo guida è capace di portare prospettive diverse. Le donne, semplicemente, sono la metà della popolazione sportiva: tenerle fuori dalle decisioni significa rinunciare a competenze, sensibilità e idee che potrebbero far crescere tutto il sistema.

Poi c’è la questione simbolica: una bambina che vede una donna allenatrice, direttrice tecnica, presidente di federazione, capisce che quel posto è anche suo.  La generazione successiva non dovrà lottare per scardinare un sistema, ma potrà costruirne uno migliore.

 

Lo sport femminile italiano sta vivendo un momento straordinario, ma per crescere davvero ha bisogno di cambiare non solo in campo, ma nei luoghi dove si decide. Finché le donne resteranno una percentuale minima nei ruoli dirigenziali, si rischierà di riflettere un modello vecchio, poco inclusivo e poco innovativo. Le iniziative in corso sono un buon inizio, ma serve un impegno collettivo  delle federazioni, delle società, degli atleti e delle atlete.

Solo così lo sport potrà diventare davvero un luogo di pari opportunità, in campo e fuori.

 

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